Beatrice e il blu

Seduta sui gradini della scala interna di un CPIA romano conosco Beatrice, è appena tornata dal mare e tiene in mano il libro dei compiti per la scuola. Delle vacanze le è rimasta in testa una treccina, che solletica l’aria di questa scuola un po’ invecchiata per l’utenza che la frequenta, le scivola sulla spalla, e infine cade morbida sulla pagina del libro aprendosi in tanti fili di cotone blu.

Nell’attesa che sua madre sbrighi alcune cose di lavoro mi chiede aiuto per risolvere una moltiplicazione a due cifre, quindi distoglie lo sguardo dal libro e lo punta oltre il ventilatore, che è fermo come d’altronde lo è l’aria di Roma, anche a settembre. Tra i volti capovolti ritratti in bianco e nero sul cartellone appoggiato alla parete intuisce somiglianze che poi ritratta prontamente.

La nostra omonimia è un passe-partout per confidenze dirompenti: <io amo i gatti ma se fanno così li odio – il mio preferito è stato investito – non l’ho scelto io mi ha scelto lui – io volevo prendere una gattina che si chiamava stella ma lei si allontanava e lui si avvicinava – l’ho chiamato  mirtillo perché aveva gli occhi blu>.

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