Longobucco

A Longobucco il vino si versa negli sciannacheddi, bicchierini rigati piccoli e facili da lavare, soprattutto se a bere si è in tanti, come a Ferragosto. Quando si prepara un dolce, poi, è sempre nello sciannacheddo che si dosano gli ingredienti.

Passeggio per le stradine di questo paese silano con Tonino, il ritmo dei nostri passi è sincopato: il quattordici agosto, infatti, è un continuo fermarsi a salutare gli emigrati che vengono dal Nord per i resoconti di routine. L’emigrazione Longobucco la conosce almeno dalla prima metà del secolo scorso: “Sai quanti ce ne sono che hanno cognomi cinesi o neozelandesi, di quarta generazione, ma sono ancora registrati come longobucchesi?”, mi dice.

Le informazioni di Tonino sono frutto di una vita passata sulle carte dell’ufficio anagrafe del Comune e, ora che è in pensione da un anno, mi confida che avrebbe preferito continuare a lavorare. Lavorando riusciva a sfidare la noia dell’inverno, quando dopo le cinque di pomeriggio le strade si ghiacciano, e i tavolini del bar della piazzetta, dove un caffè costa ancora ottanta centesimi e una pallina di gelato cinquanta, sono vuoti.

Insieme alle altre frazioni del comune, Longobucco conta duemilasettecento anime. Le case sono aggrappate alla montagna, molte sono grigie, moltissime disabitate. “Prima chi era emigrato tornava per le vacanze”, mi dice, “poi i genitori sono morti, i figli si sono fatti grandi e le case vuote”. Dai balconi più alti di un palazzo a quattro piani vedo delle catene di peperoni dolci appese al sole. Qui si chiama “pipu mpilatu”, e una volta essiccato verrà macinato e si trasformerà nella pasta che colora non solo la salsiccia e la sardella, ma anche la pasta aglio e olio, che a Longobucco è di un rosso fuoco che prova a resistere allo spopolamento.

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