La mia classe

Ieri ho concluso un corso di italiano per stranieri che è durato due mesi.
La maggior parte dei miei alunni, venuti in Italia in cerca di lavoro, sono qua da molti anni e dunque, seppur con i leciti errori, hanno ben poche difficoltà ad esprimersi in italiano. Dal punto di vista strettamente didattico, questa è forse la situazione potenzialmente più frustrante, perché i miglioramenti sono impercettibili. È estremamente difficile, infatti, correggere quegli errori che sono stati ripetuti quotidianamente per così tanto tempo da essersi ormai radicati quasi irrimediabilmente e automatizzati nel linguaggio.
Altrettanto difficile è, inoltre, dover adottare, in un’unica lezione, gli stessi strumenti ma con finalità diverse. Questi medesimi strumenti devono fornire, infatti, ad ognuno i diversi pezzetti di cui ha bisogno per completare il proprio puzzle linguistico. Pezzetti che, come è facilmente comprensibile, variano individualmente a seconda di molteplici fattori, tra cui, solo per citarne alcuni, la storia dello studente, l’uso che fa della lingua e la propria lingua di origine. Infine, anche rendere la lezione sempre appetibile è di per sé complicato, soprattutto riuscendo a mantenere il giusto equilibrio tra tanto noiose quanto inutili -a volte- regole grammaticali e attività ludiche che rischiano, se mal gestite, di sfociare nel banale.

Insomma, detta così sembra che io sia uscita vittoriosa da un’impresa epica.
Sì, vittoriosa ne sono uscita, perché ho vinto tanto. Ma l’impresa non è stata così difficile come ho fatto credere fino ad ora. Infatti, insegnare l’italiano a chi l’italiano già lo sa ha, come si può intuire, molti più vantaggi che svantaggi.
Innanzitutto, il parlare non fa fatica. La fluidità delle conversazioni, accompagnata dalla vivacità intellettiva e culturale della classeper chi non lo sapesse, gli immigrati a cui noi italiani lasciamo i mestieri che snobbiamo, ma che poi ci lamentiamo perché ci vengono “rubati”, sono, in molti casi, laureati– rende le lezioni più gradevoli, offre il lusso di poter discutere di temi interessanti e permette di allacciare rapporti umani basati su dialoghi reali.
Inoltre, la comprensione reciproca, ma al tempo stesso non scontata, offre terreno fertile allo sviluppo di equivoci linguistici che sono poi alla base di situazioni comiche e ilarità.

Una volta, parlando dell’imperativo, chiesi ad ognuno di farmi un esempio di comando. Cominciarono uno per uno, prima “mangia“, poi “cammina“, quindi “scrivi“… tutti pronunciavano quel comando esprimendo il potere che in quel momento rivestivano; quindi fu il turno di William che, sulla scia del tono autoritario dei compagni, proseguì l’elenco con uno: “Stronzo!“.
William ha circa quarant’anni e viene dalla Nigeria, le coniugazioni dei verbi se le gestisce un po’ a modo suo e, evidentemente, ha qualche difficoltà nel distinguere tra le varie parti del discorso, ma questo non ostacola affatto la sua invidiabile capacità oratoria e il suo impegno politico tanto nel suo Paese quanto qua in Italia, dove dedica gran parte del suo tempo alla gestione di un’associazione per immigrati. È sposato con Ebele, anche lei nigeriana, che lo coccola con amorevole pazienza anche quando lui, alla domanda “Cosa ti manca più del tuo Paese?“, risponde con ironica nonchalance “Mi manca una donna!“.
Il tema delle mogli è stato ritirato fuori pochi giorni fa anche da Cristopher, sempre nigeriano, in occasione di un esercizio in cui ognuno doveva tradurre in italiano un proverbio del proprio Paese. Il proverbio, che poi abbiamo appurato essere non nigeriano ma siciliano, recitava infatti così: “Quando di meglio non c’è, con la moglie si va a letto.” 
Purtroppo non ho avuto la prontezza né la voglia di appuntarmi, ogni volta, le situazioni più esilaranti che si sono create. Nella maggior parte dei casi ho preferito gustarmele al momento, rimandando alla fine della lezione il compito di prenderne nota. 

Allo stesso modo mi sono gustata il profumatissimo tajin e la squisita insalata russa preparati per la classe con dedizione, rispettivamente, da Mariame e Ileana.

Nel momento storico che stiamo vivendo l’immigrato è rappresentato come “la minaccia che arriva dal mare“.
Discutere sulle politiche di accoglienza sarebbe mera retorica, difficile oltre che inutile. Più fattibile è, invece, a mio avviso, parlare quando si conoscono singole persone, che, seppur raggruppate semplicisticamente in una stessa categoria, sono molto più diverse tra di loro di quanto lo possano essere un giovane laureato di Milano e un settantenne siciliano che ha trascorso la sua vita a lavorare la terra. Per lo meno questi ultimi sono, almeno sulla carta, connazionali e parlano, sempre teoricamente, la stessa lingua. Invece Edi dalla Polonia, Justine dalla Costa d’Avorio, William, Kevin, Ebele e Cristopher dalla Nigeria, Andra e Ileana dalla Romania, Mariame dal Marocco, Sing dall’India, Richard ed Evelyne dal Perù e Mohammed dall’Egitto in comune tra di loro hanno solo la terra dove, al momento, vivono.

Il mio desiderio è che questa terra continui a dare loro una base solida affinché possano concretizzare le proprie speranze, e che loro stessi riescano a dare il proprio contributo affinché questa terra tragga il meglio da tutto ciò che riceve.
A tutti, in bocca al lupo.


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