
I colori offuscati, preannuncianti l’attacco, sbiadiscono progressivamente fino a scomparire nell’oscurità di un black-out interno e totale; all’infuori di me, tutto è niente, tutto è trasparente -o almeno così desidero che sia. Finalmente, però, man mano che la tempia smette di pulsare, e che la cinesi perversa del corpo si placa, allora il nero si dispiega in un bianco abbacinante, mentre da quella trasparenza esterna, tanto disperante quanto disperatamente riposante, i colori si rigenerano e, nella loro rinnovata saturazione, mi appaiono brillanti, sgargianti e vivi come non li avrei potuti apprezzare prima.
Provo così ad esprimere gli effetti che un attacco di emicrania determina ciclicamente nel mio Io, alla stregua di come hanno fatto, ben prima di me, svariati personaggi, emicranici e non, affascinati dall’imperscrutabilità di una patologia tanto diffusa quanto misteriosa (mi riferisco, nello specifico, a nomi vagamente illustri quali quelli di Ippocrate, Freud e Oliver Sacks). Nel corso della mia esperienza personale, durante, appunto, quelle interminabili ore di black-out, ho avuto tempo e modo di domandarmi quali fossero il peso specifico e la forza dell’emicrania che, con una prevalenza del 14% su scala mondiale, rappresenta la terza patologia più frequente e la seconda più disabilitante del genere umano (OMS e Istituto Superiore della Sanità, Global Burden Diseases, 2018). Ho avuto persino tempo e modo di riflettere e, forse ancor più, di sentire, sviluppando un’intima analisi di risposta alle mie domande: a dispetto della sua prognosi (relativamente) benigna, l’emicrania è gravata da un peso specifico enorme a causa del fardello di tensione emotiva e psicologica di cui si carica e, di conseguenza, di una forza ambivalente, tanto distruttrice quanto rigenerante. Desidero pertanto provare a far luce su questa malattia così affascinante con l’obiettivo di fornire, a coloro che -emicranici e non- possano essere interessati, uno strumento di riflessione, di approfondimento e, magari, di sensibilizzazione.
Emicrania, questa misconosciuta
Nella prefazione alla prima edizione (1970) del suo capolavoro, “Emicrania”, Oliver Sacks (1933-2015), medico e scrittore britannico, esordisce così:
All’epoca in cui mi trovai di fronte il mio primo paziente emicranico, pensavo che l’emicrania fosse né più né meno che un particolare tipo di mal di testa. Poi, dopo averne visitati altri, capii che il mal di testa non era mai l’unica caratteristica di un’emicrania e, ancora più tardi, che non era nemmeno una caratteristica necessaria di tutte le emicranie.
L’incongruenza tra l’esperienza del malato, da un lato, e la percezione che della stessa hanno gli altri, verosimilmente applicabile a -e insito in- qualsiasi malattia, mi sembra sia esacerbata nel caso dell’emicrania. Questo gap può essere correlato a diversi fattori, non ultimo quello della longeva confusione linguistica del parlato comune che tende a non differenziare tra emicrania e cefalea/ mal di testa (questi ultimi due termini sono sinonimi e verranno utilizzati indistintamente).
I lettori emicranici (NB: sarebbe più appropriato parlare di lettrici, prediligendo l’emicrania nettamente il sesso femminile, con un rapporto donne:uomini di 3:1 -Istituto Superiore della Sanità, 2018) potrebbero ricorrere alla citazione di Oliver Sacks per rivendicare il proprio status: il mal di testa è, infatti, soltanto uno, e probabilmente il meno invalidante, dei sintomi che si è soliti sperimentare durante un attacco. Non sono da biasimare, tuttavia, i lettori non emicranici che, con toni naïf , parlino indistintamente di emicrania o mal di testa: il loro errore di approssimazione potrebbe, infatti, beneficiare di una notevole attenuante, ossia quella dell’argomento etimologico e semantico. Dal vocabolario Treccani online, infatti:
emicrània s. f. [dal lat. tardo hemicrania, gr. ἡμικρανία, comp. di ἡμι– «mezzo1» e κρανίον «cranio»]. – In medicina, affezione caratterizzata da cefalea accessionale per lo più unilaterale, generalmente preceduta da alterazioni della funzione visiva accompagnata spesso da disturbi a carico dell’apparato digerente (vomito, nausea, ecc.); più frequente nel sesso femminile, è probabilmente connessa alla presenza di un fattore ereditario, e a patogenesi non ancora ben chiara.
In senso generico, e nell’uso com., temporaneo mal di testa: avere, accusare una violenta e.; soffrire di emicrania.
Il Treccani rende ragione dell’equivoco etimologico (nel nome della patologia, emicrania, s’inscrive soltanto uno dei sintomi, ossia la cefalea) e semantico (se, in medicina, l’emicrania è un’affezione caratterizzata da disturbi visivi e digestivi, nell’uso comune diventa invece un temporaneo mal di testa), che rappresentano, a mio avviso, le radici linguistiche su cui credo possa affondare il gap cui accennavo sopra. Come in ogni ambito, però, anche in linguistica vige l’intramontabile e universale principio di economia, per cui il fatto che due significanti veicolino significati perfettamente sovrapponibili risulta improbabile in quanto comporterebbe un imperdonabile spreco di risorse (proprio ora che sembriamo finalmente sensibili al tema della sostenibilità!).
In virtù del principio di economia linguistica, pertanto, è legittimo affermare che emicrania e cefalea non sono sinonimi. L’emicrania sarebbe un tipo di cefalea; la cefalea, d’altro canto, rientra in molti casi nel corredo di sintomi dell’emicrania. Per comprendere la scelta di evitare un lessico assolutistico nel definire le relazioni che intercorrono tra emicrania e cefalea basterà tornare all’iniziale citazione di Oliver Sacks che, quasi a mo’ di provocazione, sancisce che la cefalea non è caratteristica necessaria di tutte le emicranie.
Emicrania: caratteristiche cliniche
La cefalea dell’attacco di emicrania presenta alcune caratteristiche peculiari, definendosi il più delle volte come un dolore pulsante (dato dalla vasodilatazione delle arterie cerebrali) che coinvolge metà del capo, nella maggior parte dei casi a livello della regione temporo-oculare; il lato interessato potrà variare nello stesso paziente o persino durante lo stesso attacco. Alle volte (nel 30% dei casi circa secondo i dati dell’Istituto Superiore della Sanità, 2018) l’attacco è preceduto dalla cosiddetta aura, disturbo neurologico transitorio che trova la sua base patogenetica nella vasocostrizione delle arterie cerebrali precedente la vasodilatazione propria dell’attacco: l’aura può manifestarsi mediante disturbi visivi (ad esempio visione offuscata, fosfeni o scotomi visivi), parestesie (per esempio formicolii degli arti) o, più raramente, mediante disturbi del linguaggio. Il paziente emicranico è, durante l’attacco, intollerante alla luce, ai rumori, agli odori e ai movimenti soggettivi e oggettivi; la soglia superata la quale la semplice senso-percezione del mondo si trasforma in sorgente di fastidio o dolore si abbassa sensibilmente, e gli stimoli appena menzionati la svalicano con estrema facilità. Ne deriva un’alterazione della fisiologia e dei ritmi dell’organismo che si concretizza in un corredo di sintomi sistemici alquanto vari, dalla nausea/vomito all’incontinenza sfinterica fino addirittura alla paralisi di un emivolto.
Nonostante queste evidenze, il malato sperimenta spesso un sentimento di incomprensione relativamente alla propria sintomatologia che lo può portare ad isolarsi, ritardando la ricerca di aiuto tra le persone care, proprio nel momento in cui il supporto affettivo risulta -purtroppo o per fortuna- l’unica fonte efficace di sollievo dal dolore.
Emicrania: malattia di genere
L’emicrania riveste un ruolo chiave nel contesto della Medicina di Genere (MdG), approccio biomedico che, a concretizzazione dell’assioma della cosiddetta medicina di precisione, è finalizzato a prevenire, diagnosticare e trattare malattie che possono incidere diversamente su persone di diverso genere. Ricordiamo che per genere s’intende il risultato di una complessa interrelazione tra molteplici variabili tra cui il sesso, come carattere fisiologico e funzionale del corpo umano, fattori psicologici individuali e fattori culturali, come esito del background etnico, sociale e religioso dell’individuo.
Lungi da me l’idea, pur allettante, di aprire un dibattito politico di orientamento femminista –non ne avrei le competenze e, d’altro canto, non ritengo appropriata questa sede; non si possono, tuttavia, ignorare i dati del Centro di Riferimento per le Malattie di Genere dell’Istituto Superiore della Sanità, secondo cui le donne subiscono la disabilità provocata dall’emicrania in misura maggiore rispetto agli uomini non soltanto da un punto di vista quantitativo (il 28% delle donne riferisce di aver perso, a causa dell’emicrania, più di 10 giorni di attività lavorativa nel corso degli ultimi tre mesi, a fronte del 17,7% degli uomini), ma anche in termini qualitativi (l’emicrania della donna sembra essere qualitativamente più invalidante secondo la scala MIDAS, Migraine Disability Assessment Scale). Pur volendo glissare sulla ben nota e aneddotica superiore capacità di sopportazione del dolore da parte delle donne, non penso appaia (troppo) provocatorio l’interrogativo: e se fosse stato il contrario? Se ad essere più colpiti da questa patologia fossero stati gli uomini, l’attenzione sociale al problema sarebbe state maggiore? La stigmatizzazione che percepiscono il 32,9% dei pazienti emicranici (uomini e donne) -dati dell’ISS, 2018- sarebbe stata minore? Può questo rappresentare, unitamente a molte altre malattie di genere il cui impatto sulle donne è maggiore, specie durante gli anni di maggior capacità produttiva, uno dei fattori causali, pur minimo, che contribuisce a far sì che, tuttora nel 2020, le alte cariche lavorative siano prevalentemente destinate agli uomini? La risposta che darò, per quanto di carattere personale e intuitivo (pertanto assolutamente criticabile e confutabile), è un sì pieno ed echeggiante. Gettare luce su questa patologia diventa dunque un importante strumento di sensibilizzazione relativamente a un fattore che concorre al persistente, seppur spesso (maliziosamente) misconosciuto, svantaggio sociale di cui le donne sono purtroppo ancora vittime.
Emicrania: anima e psiche
Oliver Sacks destina un intero capitolo della sua opera a quelli che lui definisce gli orientamenti psicologici dei pazienti emicranici, stilando un quadro che, benché necessariamente schematico e quindi inevitabilmente incompleto, è a mio avviso un capolavoro di genio. La tensione psichica di cui si carica l’emicrania si evidenzia concretamente durante le varie fasi dell’attacco sotto forma di stati d’animo diversi ma di volta in volta riproducibili -dalla tensione emotiva della fase prodromica, all’angoscia di dimensioni quasi esistenziali dell’attacco vero e proprio, durante quella fase in cui il paziente si tira la coperta sopra la testa per escludere la realtà esterna e rinchiudersi nel mondo interiore dei propri sintomi, fino al sollievo del recupero postdromico.
Queste sensazioni, e la ciclicità che ne regola l’alternanza, che esplodono finalmente e invariabilmente, seppur con tempi e modalità differenti, in una sorta di estasi da rinascita, inducono nel malato (almeno in me) una sorta di dipendenza emotiva.
Muovendosi dall’assioma -da me totalmente condiviso- che l’emicrania abbia, in ciascun individuo, un ruolo tattico finalizzato, fra le altre cose, al mantenimento omeostatico della fisiologia dell’organismo, Oliver Sacks riprende, in questo capitolo, la sua classificazione in emicranie periodiche, emicranie circostanziali ed emicranie abituali e descrive i ruoli strategici che le diverse emicranie possono avere nell’ambito dell’economia dell’individuo. Le emicranie circostanziali possono essere indotte in modo drammatico da eccitamenti intensi e appassionati (collera, terrore, eccitazione sessuale…), definendosi come reazioni a emozioni soverchianti, mentre quelle periodiche o abituali si verificherebbero nel contesto di tensioni, pulsioni e necessità emotive croniche alle quali è negata un’espressione diretta o comunque adeguata (tra i tanti, impulsi aggressivi, distruttivi, libidici, tensioni ansiose e ossessive…). La reazione può avere dunque una finalità recuperativa (è il caso dei noti attacchi del finesettimana) o regressiva, nel contesto della quale la ritirata vegetativa con la quale si manifesta l’attacco è caratterizzata, più che dall’isolamento e dalla solitudine, dalla sofferenza invocante il soccorso, assumendo i connotati non tanto del sonno quanto della malattia. Ovviamente, il confine tra queste due modalità è estremamente labile e sfumato e, addirittura, le stesse possono coesistere anche nell’ambito di un unico attacco.
Invito caldamente i lettori e le lettrici interessati all’argomento ad approfondire la questione mediante la lettura dell’opera di Oliver Sacks, e torno per un attimo sul piano personale argomentando quanto accennato poco sopra: quella che io (provocatoriamente ma coscientemente, pur consapevole di godere del privilegio di poter contare sull’origine mestruale della mia emicrania, che ne limita gli attacchi alla frequenza di 1-2 al mese) definisco come dipendenza emotiva da emicrania non è soltanto frutto della rasserenante sensazione di immunità del periodo refrattario che segue immancabilmente un attacco, ma si spiega anche (forse soprattutto) con la natura incapsulante (per usare la terminologia di Oliver Sacks) di alcuni tipi di emicrania, tra cui appunto quella mestruale.
Personalmente ho l’impressione che molte emicranie mestruali (e altre sindromi mestruali associate) facciano proprio questo, condensando, per così dire, le tensioni di un mese intero in qualche giorno di malattia concentrata; ho osservato che in molte pazienti la guarigione (privazione) da tali sindromi mestruali può essere seguita da manifestazioni di ansia diffusa e conflitto nevrotico durante la restante parte del mese. In breve, tali emicranie servono a imbrigliare, e quindi a circoscrivere, emozioni dolorose croniche o ricorrenti; ed è opportuno tenerlo a mente, prima di disperdere, con zelo eccessivo, emicranie siffatte.
Pur non essendo mai riuscita ad argomentare con tale maestria le motivazioni della mia riluttanza all’assunzione della terapia farmacologica sintomatica (i farmaci di prima scelta per il trattamento degli attacchi emicranici sono i triptani), credo che la mia paura sia sempre stata proprio quella di dissipare l’attacco, che intuitivamente percepisco in maniera opportunistica, come strumento che il mio corpo mi fornisce per circoscrivere emozioni forse così intense che, chissà, potrebbero sopraffarmi durante la restante parte del mese. L’emicrania diventa dunque per me una forma di autotutela, di purificazione, di riscoperta del neutro e del nulla. E, come direbbe Clarice Lispector, sentire quel sapore del nulla è la mia dannazione, e il mio gioioso terrore; ma anche, in un certo senso, la mia salvezza cui ormai non potrei rinunciare.
Per approfondimenti:
- Emicrania, Oliver Sacks (1992)
- Impatto socio-economico dell’emicrania in Italia, Istituto Superiore della Sanità Centro di Riferimento per la Medicina di Genere (2018)
Cara Beatrice,
stavo considerando che, scritto da te, probabilmente leggerei volentieri anche le Pagine Gialle… L’argomento emicrania mi interessa il giusto. Cioè, da bravo egoista non soffrendone, quasi niente. Eppure, il pezzo l’ho, come al solito, letto con grande partecipazione.
Il tuo stile pulito, asciutto; i termini lessicalmente e semanticamente sempre appropriati (a parte le licenze poetiche come svalicare per travalicare… ma ci sta); la chiarezza del periodare: tutto contribuisce a fare dei tuoi scritti una fonte sempre di arricchimento.
La cosa, naturalmente, non mi stupisce. Un po’ perchè so bene come scrivi, non avendoti dovuto insegnare all’epoca, quando ti eri messa in testa di fare la giornalista, neanche a mettere una virgola, un po’ perchè scritti come questo sono il naturale portato della tua grande intelligenza e di un’invidiabile lucidità.
Un abbraccio
Renato
ps ho provato a pubblicare questo commento sul tuo bolg. Purtroppo, la mia incapacità tecnologica me lo ha impedito…
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